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Home » Argomenti » Cambiamento climatico » Two minutes to midnight

Articolo stampato dal sito https://carlocarraro.org
Two minutes to midnight

Tags: cambiamenti climatici, politiche climatiche  |   Data: 4 Novembre 2019  | Nessun commento

* Questo post è stato pubblicato anche in Maize (https://www.maize.io/en/content/what-are-climate-change-effects)

 

Quando si parla di cambiamento climatico tendiamo a focalizzarci sui danni – ormai percepibili a occhio nudo – anziché sulle soluzioni che andrebbero adottate. L’aspetto più preoccupante è proprio l’inazione politica: a livello globale non stiamo facendo quasi nulla per proteggerci, molto poco per prevenire la catastrofe ambientale. Ma il rischio di un’accelerazione improvvisa e fortissima è concreto: le statistiche più recenti confermano che le previsioni fatte negli anni Ottanta e Novanta erano molto prudenti. La più eclatante è quella che riguarda lo scioglimento del Polo Nord: negli ultimi vent’anni la superficie dell’Artico si è dimezzata, il suo volume è un quarto di quello del 1990. Un effetto del cambiamento climatico molto maggiore di quanto previsto.

 

Tutti sanno che lo scioglimento dei ghiacciai è dovuto all’innalzamento della temperatura, ma pochi sono consapevoli che questo innalzamento varia sensibilmente da area ad area. La media globale della temperatura è salita di un grado negli ultimi cent’anni, ma al Polo Nord è cresciuta di 4,5 gradi, mentre nell’Antartico la crescita è zero. L’innalzamento della temperatura innesca effetti a catena drammatici: si sta sciogliendo il ghiaccio delle tundre, che tiene immagazzinato un’enorme quantità di metano. Una volta libero, il metano raggiunge l’atmosfera e aumenta la quantità di gas serra. Quindi c’è una sorta di effetto perverso, per cui più il ghiaccio si scioglie, più gas serra va in atmosfera, più il ghiaccio nuovamente si scioglie.

 

Lo scioglimento dell’Artico ha altre due conseguenze: la riduzione della salinità dell’acqua e il cambiamento di traiettoria delle correnti di aria e acqua calda. La combinazione di questi fattori genera variazioni climatiche severe, tanto che alcune regioni del pianeta potrebbero presto diventare inabitabili. Inoltre assisteremo all’innalzamento del livello dei mari, che secondo le previsioni sarà di circa 15 centimetri entro il 2050. Se, come sta lentamente accadendo, oltre all’Antartico si dovesse sciogliere anche il ghiaccio della Groenlandia, il livello del mare crescerà da uno a cinque metri.

 

Alcuni paesi, minacciati dall’innalzamento del livello delle acque, hanno preso decisioni drastiche. L’Indonesia ha deciso di ricostruire la capitale Jakarta 300 chilometri all’interno. L’Olanda ha un piano di trasferimento per tutte le città sulla costa, che saranno protette da dighe e colline: treni, strade e infrastrutture saranno protette dal mare. Anche New York ha previsto un sistema di dighe mobili anti allagamento che chiudono il fiume Hudson. E’ un progetto già approvato e in fase di realizzazione.

 

Un altro fattore da considerare è quello della variabilità climatica: avremo periodi di siccità lunghi con temperature elevate, periodi piovosi altrettanto lunghi, precipitazioni molto più accentuate, inondazioni, uragani. Tutto questo avrà un forte impatto soprattutto nelle regioni climatiche più vulnerabili, che sono già in difficoltà. Periodi di siccità prolungata nella zona dell’Africa subsahariana, del Centrafrica o del Sudest asiatico renderanno molto più povere queste aree. Sarà impossibile produrre cibo a sufficienza, milioni di persone saranno costrette a spostarsi, nasceranno conflitti legati allo sfruttamento delle risorse, dell’acqua, dei terreni fertili. La catastrofe ambientale sarà causa di una catastrofe politica ed economica generalizzata.

 

Un dato interessante è che, negli ultimi trent’anni, la variazione nella distribuzione della ricchezza interna a ciascun paese è stata molto più forte della polarizzazione tra paesi. Un tempo in India il 10 per cento più ricco possedeva il 20 per cento del reddito complessivo del paese, oggi ne possiede il 40 per cento. Un fenomeno simile caratterizza anche Francia, Italia, Russia, Cina, Stati Uniti. Il tema della distribuzione equa del reddito deve essere risolto dalla lungimiranza dei governi: finchè considereranno il protezionismo, l’autarchia e il sovranismo come la risposta ai problemi del mondo, non riusciremo a controllare né l’emergenza ambientale, né quella sociale o economica. Se invece troveranno il modo di collaborare a una riorganizzazione strutturale dei sistemi economici internazionali, allora le cose potrebbero andare diversamente.

 

USA, Europa e Cina producono da soli più del 50 per cento del PIL mondiale ed emettono il 50 per cento del gas serra. Lavorando nella stessa direzione e in modo collaborativo potrebbero fare moltissimo per controllare il cambiamento climatico. È un segno positivo che May e Corbyn abbiano convenuto fosse il momento di dichiarare il cambiamento climatico un’emergenza nazionale. L’Irlanda si è subito accodata e altri Paesi seguiranno presto il loro esempio, grazie anche alla pressione dei movimenti creati da figure come Greta Thunberg.

 

La politica sa che siamo oltre il punto di non ritorno, che senza una drastica inversione ridotta e nuove tecnologie non c’è alcuna possibilità di rimanere al di sotto dei due gradi di incremento di temperatura. Troppe emissioni di CO2 nell’atmosfera. Negli ultimi 40 anni – cioè da quando esiste una piena consapevolezza del problema – abbiamo emesso più CO2 che in tutta la storia dell’umanità. Nel 1992 la Conferenza di Rio sul cambiamento climatico ha suonato l’allarme sulle emissioni di gas serra, che da allora sono però aumentate del 70 per cento, nonostante tutti i paesi si fossero accordati per ridurle. C’è una distonia enorme tra quello che si dice di voler fare e quello che poi effettivamente si fa. Il movimento di Greta Thunberg nasce da questa contraddizione.

 

Naturalmente non c’è solo la coscienza civile. La tecnologia può attenuare gli effetti del cambiamento climatico con risultati straordinari. In un’epoca in cui l’azione dei governi è inefficace, mentre i grandi accordi bilaterali, i protocolli d’intesa e le conferenze sul clima restano lettera morta, è il settore privato che può fare la differenza. Nel 2018 sono stati investiti 400 miliardi di dollari a livello globale per implementare tecnologie e soluzioni energetiche legate al cambiamento climatico. E i risultati si cominciano a vedere. Oggi in Europa l’energia elettrica prodotta con le fonti rinnovabili costa meno di quella prodotta con le fossili. In Asia si stanno costruendo grandi impianti di energia solare. In Cina, India e Australia l’energia prodotta con rinnovabili è venduta all’asta a prezzi inferiori a quella prodotta con combustibili fossili.

 

Anche la Commissione europea ha fatto la sua parte stanziando dieci miliardi di euro per la ricerca sulle tecnologie legate al climate change. Uno degli ambiti più promettenti è quello della rimozione di CO2 dall’atmosfera. Global Thermostat e Carbon Removal Technologies Startups sono due aziende leader in questo campo. Ma c’è anche chi è riuscito a creare dei microrganismi in grado di “mangiare” la CO2 e chi è riuscito a selezionare piante capaci di assorbire CO2 a una velocità molto più elevata rispetto alle altre specie vegetali.

 

Altrettanto importante è il tema dell’immagazzinamento dell’energia: la produciamo ma non sappiamo come conservarla. Le fonti rinnovabili possono sostituire completamente le fossili, ma occorre che l’energia solare prodotta durante il giorno, o quella eolica quando c’è vento, venga immagazzinata da qualche parte per la notte o i periodi senza vento. Questo succede già in ambito domestico, ad esempio, combinando impianti fotovoltaici e batterie, tuttavia il meccanismo va replicato su larga scala. Pensiamo a una centrale elettrica solare: come si fa a conservare tutta quell’enorme quantità di energia per poterla poi rilasciare di notte?

 

Su questo siamo in ritardo, anche se qualche esperienza pionieristica esiste. C’è la centrale australiana dove Tesla ha prodotto delle batterie a lunga durata. Il governo tedesco ha finanziato la costruzione di tre nuovi bacini idroelettrici in cui quando c’è vento viene pompata acqua con energia eolica e in assenza di vento viene rilasciata per alimentare una turbina che restituisce energia elettrica. C’è la Svizzera, dove del gas viene compresso dentro enormi caverne naturali sotto le montagne con energia solare e di notte rilasciato in modo che la pressione alimenti una turbina.

 

Un terzo ambito cruciale è quello della desalinizzazione dell’acqua o di altri sistemi di produzione e conservazione dell’acqua. All’università di Manchester l’anno scorso hanno inventato una membrana al grafene che permette di desalinizzare l’acqua a basse temperature. Questo potrebbe aiutare molti Stati a contrastare la crisi agricola indotta dal cambiamento climatico. Infine ci sono le startup innovative nel campo della distribuzione diffusa di energia. Soprattutto in Africa e in America Latina stanno sorgendo impianti off-grid che permettono l’autosufficienza di interi villaggi grazie all’energia solare. Ma senza una vera agenda politica ed uno sforzo globale tutti questi rischiano di rimanere dei palliativi.

 

Rimane tuttavia la speranza che lo sviluppo tecnologico, se adeguatamente sostenuto, soprattutto per le opportunità di business che contiene, possa offrire quelle soluzioni a quel cambiamento climatico che la miopia degli uomini, delle istituzioni e dei governi di questi ultimi 40 anni, ha portato a livelli di grave pericolo per l’umanità.

 

[Photo by Pavel Brodsky on Unsplash]


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