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Home » Argomenti » Cambiamento climatico » Il crescente impatto della finanza sul controllo del clima

Articolo stampato dal sito https://carlocarraro.org
Il crescente impatto della finanza sul controllo del clima

Data: 22 Giugno 2016  | Nessun commento

L’Accordo sul Clima raggiunto lo scorso dicembre 2015 alla COP21 di Parigi ha dato nuovo slancio alle politiche climatiche in tutto il mondo. Circa 170 Paesi stanno lavorando per definire le politiche più adatte a ridurre le proprie emissioni nazionali di gas serra e dare il proprio contributo alla transizione verso un’economia globale a basse emissioni di carbonio.

Le nuove politiche climatiche guideranno nuovi investimenti a supporto di tale transizione, aumentando il rischio che investimenti in progetti ad alta intensità di carbonio si rivelino stranded assets, svalutandosi prima della fine della loro vita utile prevista. Gli investimenti in attività dannose per il clima non saranno minacciati solo dall’introduzione di normative più stringenti a tutela del clima, ma anche da fattori economici – come il calo del prezzo del petrolio – e da innovazioni nel campo dell’energia – in particolare se legate a misure di efficienza energetica e a progressi nelle tecniche di immagazzinamento di energia prodotta da fonti rinnovabili. Altri fattori di svalutazione potranno essere rappresentati dalle modifiche nel comportamenti dei consumatori, influenzati o guidati da nuove consapevolezze, e da nuovi sistemi di certificazione ed etichettatura dei prodotti di consumo.

Il Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici (IPCC) ha ricordato recentemente che, a livello globale, abbiamo già utilizzato il 65% del carbonio “bruciabile” se vogliamo rispettare l’obiettivo di  contenere l’innalzamento della temperatura media a fine secolo entro 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali (obiettivo già meno ambizioso di quello di contenerle entro 1,5 gradi, anch’esso menzionato nell’Accordo di Parigi). Per rispettare l’obiettivo dei 2 gradi con una probabilità del 50%, circa il 90% del carbone, il 35% del petrolio (fino al 60% nel Medio Oriente) e il 50% delle riserve di gas mondiali dovranno restare nel sottosuolo, a meno che non vengano sviluppate nuove tecnologie per la cattura e lo stoccaggio (Carbon Capture and Storage – CCS) o la cattura e l’utilizzo (Carbon Capture and Utilization – CCU) del carbonio.

 

La quantità di petrolio, gas e carbone che dovremo lasciare nel sottosuolo per contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2° (Carbon Brief)

La quantità di petrolio, gas e carbone che dovremo lasciare nel sottosuolo per contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2° (Carbon Brief)

 

Inoltre, secondo uno studio di Paul Ekins pubblicato nel 2015 sulla rivista Nature, tutte le risorse estrattive dell’Artico dovrebbero essere classificate come non utilizzabili e non dovrebbe crescere la produzione di greggio non convenzionale – come il petrolio da sabbie bituminose – se non associato a tecnologie CCS o CCU, così come non dovrebbero essere utilizzate fino al 2050 l’80% delle risorse non convenzionali di gas.

Quanto detto ha, naturalmente, importanti implicazioni economiche. Secondo Citigroup, il valore delle riserve di combustibili fossili “non bruciabili” ammonterebbe a oltre 100 trilioni di dollari al 2050 (senza tenere in considerazione lo sviluppo di tecnologie CCS e CCU) e uno studio condotto da Carbon Tracker Initiative in collaborazione con il Grantham Research Institute (LSE) stima come non bruciabile il 60 – 80% delle riserve di carbone, gas e petrolio di proprietà delle società quotate in borsa.

In questo contesto, si rendono necessarie riforme nel campo dei sussidi ai combustibili fossili nei Paesi produttori che, pur mantenendo ad un livello accettabile la redditività del settore, devino gli investimenti verso le rinnovabili. Secondo Climate Policy Initiative, infatti, nel 2014 la finanza per il clima ha mobilizzato 391 miliardi (USD), una somma inferiore a quella investita dai governi per sussidiare il consumo di combustibili fossili, che ha raggiunto nello stesso anno i 490 miliardi (USD). Per implementare i National Determined Contributions (NCDs), i contributi nazionali programmati presentati nel contesto della Conferenza sul Clima di Parigi, si renderanno necessari ancora 13,5 trilioni (USD) di investimenti in risparmio energetico e in tecnologie a basse emissioni di carbonio nei prossimi 15 anni (circa 900 miliardi all’anno).

L’obiettivo è, quindi, quello di più che raddoppiare gli investimenti in azioni per il clima.

Per raggiungere tale obiettivo, si sta delineando un nuovo quadro che vedrà le decisioni delle istituzioni finanziarie allinearsi progressivamente con gli obiettivi climatici di lungo termine definiti a Parigi.

In vista di una regolamentazione più severa in materia di cambiamento climatico, investitori ed intermediari finanziari coinvolti in investimenti in combustibili fossili farebbero bene a valutare la propria esposizione ai rischi, misurare l’impatto di tale esposizione e, infine, gestire adeguatamente i rischi identificati. Una gestione che passa attraverso un’azione combinata di quattro strategie disponibili: disclosure, disinvestimento dai combustibili fossili, engagement e diversificazione.

 

Disclosure

Informazioni pubbliche e disponibili a tutti gli stakeholder sono un prerequisito fondamentale per una valutazione, misurazione e gestione efficace del rischio, anche quando si parla di finanza climatica. Non solo vanno rese pubbliche le politiche ambientali, sociali e di governance relative al clima, ma anche le conseguenze dirette di tali politiche sulla composizione dei portafogli di investimento. Le principali compagnie petrolifere si sono recentemente impegnate, in termini di disclosure (trasparenza), nel contesto della Portfolio Decarbonization Coalition, un’iniziativa delle Nazioni Unite che stimola gli investitori a ridurre progressivamente l’impronta di carbonio dei loro portafogli. Firmando il Montréal Carbon Pledge, lanciato nel settembre 2014 e sostenuto dall’iniziativa Principles for Responsible Investment (PRI) e dal United Nations Environment Programme Finance Initiative (UNEP FI), gli investitori si impegnano, ogni anno, a misurare e pubblicare l’impronta di carbonio dei loro portafogli. Il progetto, supportato da investitori provenienti da Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, Singapore e Sud Africa, alla COP21 di dicembre 2015, coinvolgeva già più di 120 investitori con oltre 10 triliardi di assets in gestione.

La Francia offre un buon esempio di normativa in fatto di disclosure grazie all’Articolo 173 dell’Energy Transition for Green Growth (agosto 2015), che rafforza gli obblighi delle società quotate e delle istituzioni finanziarie nella trasparenza in materia di impatto sul clima.

 

Disinvestimento

C’è un collegamento tra disclosure e disinvestimento.  L’evoluzione di nuove norme sociali, come la campagna di disinvestimento dalle fonti fossili, minacciano di danneggiare l’immagine e la reputazione delle società che scelgono di non disinvestire dal settore fossile, aumentando così il loro costo del capitale e inducendo di conseguenza ad una riduzione della produzione e, infine, ad una riduzione delle emissioni.

 

Come il disinvestimento può influenzare la produzione di combustibili fossili e ridurre le emissioni (HSBC 2015)

Come il disinvestimento può influenzare la produzione di combustibili fossili e ridurre le emissioni (HSBC 2015)

 

Il movimento per il disinvestimento iniziò a settembre 2013, quando la Carbon Tracker Initiative lanciò la Carbon Asset Risk (CAR) Initiative, con il supporto della Global Investor Coalition on Climate Change: 75 investitori, detentori di 3,5 triliardi (USD) in assets, chiesero a 45 tra le principali società di produzione di combustibili fossili a livello mondiale di affrontare i rischi materiali e finanziari posti dal cambiamento climatico e di pubblicare con trasparenza i propri rischi in termini di stranded assets. A settembre 2015, istituzioni e individui con 2,6 triliardi (USD) in assets si sono impegnati a disinvestire da determinate società del settore fossile, penalizzando in particolare quelle coinvolte nel settore del carbone e, in alcuni casi, in quello delle sabbie bituminose.

Le opzioni di disinvestimento sono diverse. Vanno dal disinvestimento completo da tutte le società del settore fossile al disinvestimento parziale in base alla classificazione delle società; da scelte basate sui criteri di rendimento a scelte fondate sull’analisi della catena del valore, fino al disinvestimento basato sull’intensità di carbonio di ogni società.

Un esempio di disinvestimento parziale è quello attuato dal Fondo Pensionistico Nazional Svedese, Second AP Fund, che ha smesso di investire in 12 società la cui gran parte del fatturato era legata al carbone termico e in 8 società di produzione di gas e petrolio impegnate in costosi progetti, come quelli riguardanti le sabbie bituminose. Un esempio che invece riguarda l’analisi della catena del valore è quello del Norway’s Storebrand Pension Fund, che ha disinvestito da 13 produttori di carbone e da 6 compagnie fortemente impegnate nel settore delle sabbie bituminose, e ha continuato a disinvestire lungo tutta la catena di valore (da monte, fino alle centrali di produzione dell’energia).

 

Engagement

Un altro modo di gestire l’esposizione al carbon risk è l’engagement (impegno). Gli investitori potrebbero infatti non vedere il disinvestimento come una strategia coerente con i propri obiettivi e scegliere di conservare i propri investimenti in azioni legate ai combustibili fossili, impegnandosi però in modo costante e attivo nella gestione dei rischi ambientali e sociali associati all’investimento. Mantenere i propri investimenti in combustibili fossili permette infatti agli investitori di contribuire attivamente alla gestione delle società in cui sono coinvolti.

Una politica di investimento responsabile può comportare diverse azioni, come impegnarsi nella gestione del rischio normativo ed economico causato da assets che potrebbero svalutarsi (stranded assets), integrare il rischio di stranding nella valutazione del debito e del capitale, appoggiare gli approcci collettivi attraverso la firma del Montréal Carbon Pledge, raccomandare alle società produttrici e consumatrici di combustibili fossili una diversificazione delle fonti energetiche, aumentando la quota di rinnovabili.

Per chi adotta una politica di investimento di questo tipo, è importante distinguere tra rischi di lungo e di breve periodo. Se, in precedenza, il rischio di stranding era considerato come rischio di lungo periodo, in quanto associato prevalentemente alla regolamentazione del clima, percepita come tutt’altro che urgente (e rappresentava quindi un rischio tangibile solo per i veri investitori di lungo periodo, come le compagnie assicurative e i fondi sovrani), oggi è diventato un rischio di breve termine: il crollo dei prezzi dell’energia, rendendo meno redditizie le attività operative, ha portato le industrie dei combustibili fossili a tagliare sugli investimenti nel campo. Di conseguenza, è sempre più urgente affrontare il rischio di stranding anche per gli investitori di breve periodo, come i private equity e i fondi pensione.

 

Diversificazione

Bolton et al. (2015) suggeriscono un’interessante strategia di investimento che permette agli investitori di lungo periodo di contenere il rischio climatico dei loro portafogli senza sacrificare i rendimenti. Come sostengono gli autori, sono pochi gli investitori consapevoli dell’impronta di carbonio dei propri investimenti e chi investe in società petrolifere o di gas spesso non dà il giusto peso al rischio di stranding. Gli investitori dovrebbero invece considerare seriamente il rischio climatico, tenendo conto sia dell’incertezza posta dal cambiamento climatico sia delle politiche di mitigazione.

Bolton propone, come strategia di riduzione del rischio climatico, di usare indici “decarbonizzati” per mantenere un’esposizione al rischio simile a quella del mercato standard di riferimento, ottimizzando la composizione del carbonized index al fine di limitare il tracking error dall’indice di riferimento. Questa strategia va oltre il semplice disinvestimento ed è adatta agli investitori passivi che cercano di massimizzare i profitti nel lungo termine limitando allo stesso tempo le transazioni finanziarie nel tempo, come può essere il caso delle compagnie assicurative e dei fondi sovrani.    Tra gli investitori istituzionali, il potenziale di questa strategia è particolarmente alto per le compagnie assicurative, che investono principalmente in titoli di debito societari.

Ciononostante, nei Paesi OCSE, gli investimenti verdi da parte degli investitori istituzionali restano bassi. Il nuovo quadro normativo europeo (ad esempio, Basilea III e Solvency II) riduce l’attrattività del settore energetico per il settore bancario, in quanto riduce la capacità di realizzare prestiti di lungo termine per il finanziamento di progetti. Questi aspetti, combinati ai bilanci non prosperosi delle imprese di produzione di energia pulita, rendono importante il coinvolgimento di investitori istituzionali.

Nei Paesi in via di sviluppo, le compagnie assicurative e i fondi pensione sono ancor meno propensi ad investire le proprie risorse in investimenti con rendimento variabile, com’è il caso dei progetti energetici, soprattutto per i maggiori rischi percepiti e per l’aspettativa di un maggiore Tasso Interno di Rendimento rispetto a quello ottenibile nelle economie OCSE. Perciò, nei Paesi in via di sviluppo, i fondi sovrani dovrebbero essere in prima linea, anche se la crescita potenziale nei mercati emergenti sta attraendo gli assicuratori europei che intendono reimpiegare i proprio capitale.

 

La Policy Session FEEM-ICCG organizzata a Zurigo da Isabella Alloisio in occasione della ventiduesima Conferenza Annuale della European Association of Environmental and Resource Economists (EAERE, 23 giugno 2016) affronta proprio il ruolo degli investitori istituzionali nella gestione del rischio di stranding.

David N. Bresch di Swiss Re, uno dei keynote speakers, discuterà la necessità che i decisori politici non solo riconoscano l’impronta carbonica, ma anche l’esposizione al rischio dei propri Paesi, regioni e città. Mentre la crescita economica è un fattore chiave del rischio (maggior benessere significa avere più risorse esposte agli impatti, ad esempio nelle aree costiere), i cambiamenti climatici aggravano la situazione.

A livello sovrano, le simulazioni mostrano che gli impatti dei cambiamenti climatici, come quelli causati da gravi cicloni tropicali e inondazioni attesi una volta ogni quarto di secolo, aggraverebbero l’impatto negativo di una catastrofe naturale sul rating fino a tre punti oggi, e di un ulteriore 20% al 2050. L’impatto calcolato è, comunque, solo parziale, in quanto non riflette tutti i rischi associati al cambiamento climatico: l’effettivo impatto potrebbe quindi essere ancora maggiore. Inoltre, mentre i rischi associati ai cambiamenti climatici per i rating sovrani delle economie avanzate sono bassi, i rating di molte economie emergenti (in particolare dei Caraibi e del Sudest Asiatico) potrebbero essere esposti a maggiori pressioni.

 

La Finanza per il Clima è anche il tema della nuova edizione del concorso Buone Pratiche per il Clima, organizzato dall’osservatorio ICCG Best Climate Practices. La quarta edizione del concorso  ha voluto raccogliere idee e progetti per orientare i finanziamenti verso progetti di mitigazione e di adattamento su piccola scala e/o per facilitare la diffusione della finanza climatica inclusiva (intervenendo, ad esempio, sui rischi di investimento o sulla necessità di maggiore trasparenza, prevedibilità ed accountability nei finanziamenti per il clima). La fase di accettazione delle proposte si è conclusa il 30 maggio. La pratica vincitrice sarà determinata da una combinazione delle votazioni online (ora in corso) e delle valutazioni di un Panel internazionale di Esperti, e sarà annunciata nel prossimo ottobre.

 

Riferimenti

2° Investing Initiative. (2015). Decree Implementing Article 173-VI of the French Law for the Energy Transition: Challenges and First Recommendations Retrieved from: http://2degrees-investing.org/IMG/pdf/energy_transition_law_in_france_-_briefing_note_final.pdf

Andersson, M., Bolton P., Samama F. (2014). Hedging Climate Risk. . Columbia Business School Research Paper, (14-44).

AP4. (2015). AP4’s Low-Carbon Investments. Retrieved from http://www.ap4.se/en/esg/climate-change-a-focus-area/ap4s-low-carbon-investments/

Cadelcott B., et al. (2015). Stranded Assets and Subcritical Coal. Retrieved from: http://www.smithschool.ox.ac.uk/research-programmes/stranded-assets/

Cambridge Institute for Sustainability Leadership (2015). Unhedgeable Risk. Retrieved from: http://www.cisl.cam.ac.uk/publications/sustainable-finance-publications/unhedgeable-risk

Citigroup. (2015). Global Oil Vision. Retrieved from: http://www.citigroup.com/citi/

Climate Policy Initiative (2015), The Global Landscape of Climate Finance, retrieved at http://www.climatefinancelandscape.org/

Carbon Tracker Initiative (2013). Unburnable Carbon 2013: Wasted capital and stranded assets. Retrieved from http://www.lse.ac.uk/GranthamInstitute/wp-content/uploads/2014/02/PB-unburnable-carbon-2013-wasted-capital-stranded-assets.pdf

Carbon Tracker Initiative. (2014). Carbon Budget. Retrieved from: http://www.carbontracker.org/wp-content/uploads/2014/08/Carbon-budget-checklist-FINAL-1.pdf

Carbon Tracker Initiative. (2015). The $2 trillion stranded assets danger zone. Retrieved from: http://www.carbontracker.org/report/stranded-assets-danger-zone/

HSBC. (2015). Stranded assets: what next? Retrieved from: http://www.businessgreen.com/digital_assets/8779/hsbc_Stranded_assets_what_next.pdf

McGlade C., Ekins P. (2015). The geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2°C. Nature, Letter 517, (187–190). http://www.nature.com/nature/journal/v517/n7533/full/nature14016.html

SSEE. (2015). Stranded Assets Programme. Retrieved from: http://www.smithschool.ox.ac.uk/research-programmes/stranded-assets/

UNEP. (2015). From Disclosure to Action: Annual Report of the Portfolio Decarbonization Coalition. Retrieved from: http://www.unepfi.org/fileadmin/documents/FromDisclosureToAction.pdf

 

Riconoscimenti

Isabella Alloisio ha contribuito alla redazione di questo articolo.


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