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Home » Argomenti » Sviluppo » La transizione demografica

Articolo stampato dal sito https://carlocarraro.org
La transizione demografica

Data: 10 Dicembre 2019  | Nessun commento

La recente crescita della popolazione anziana nei principali paesi sviluppati, ma soprattutto in Italia, è stata rapidissima. La quota di anziani sul totale della popolazione era solo il 20% nel 1990. E’ oggi più di un terzo (si veda la Tabella). E sta crescendo sempre più rapidamente. Sarà il 41% tra 10 anni e più del 55% tra 20. Le regioni del Pentagono sono le più’ interessate da questo fenomeno, con Lombardia, Veneto ed Emilia già oltre il 35%. Il che significa che tra 10 anni in queste regioni metà della popolazione dovrà reggere il peso dell’altra metà.

 

Fonte: Eurostat database (https://ec.europa.eu/eurostat/europa/database)

 

 

Questi livelli di invecchiamento sono molto superiori a quelli di simili regioni europee (vedi sempre la Tabella) e le ragioni sono ben spiegate nell’articolo di Boccuzzo e Dalla Zuanna nel Rapporto 2019 della Fondazione Nord Est (http://www.fnordest.it/publications/il%20pentagono%20dello%20sviluppo/index.html). Gli autori mostrano come l’invecchiamento di una popolazione sia determinato da a quattro fattori: una struttura per età particolarmente favorevole all’incremento proporzionale degli anziani; il declino della mortalità degli anziani; una prolungata bassa fecondità; saldi migratori negativi o debolmente positivi per i giovani e gli adulti.

 

In particolare, la struttura per età della popolazione italiana è oggi particolarmente squilibrata a favore degli adulti maturi. Negli anni fra il 1955 e il 1975 in Italia sono nati ogni anno fra 800 mila e un milione di bambini, che oggi hanno 44-64 anni. Fra il 1976 e il 2009 – invece, ogni anno i nati sono stati 500-600 mila, e nell’ultimo decennio ancora di meno, raggiungendo il minimo di 440 mila nel 2018.

 

Questi rapidi cambiamenti sono avvenuti anche in altre regioni d’Europa, ma nel nostro paese sono stati particolarmente accentuati. Essi hanno generato – e ancor più genereranno nel prossimo ventennio – una sorta di “onda” demografica. Ad esempio, nel 1998 in Italia vivevano 651 mila cinquantatreenni, che sono diventati 769 mila nel 2008 e un milione nel 2018. Fra trent’anni, secondo l’Istat, più del 70% di questo milione di baby boomer, nati nel 1965 (l’anno in cui il numero di nascite raggiunse il massimo), sarà ancora vivo. Se ciò avverrà – come è fortemente probabile – nel 2048 risiederanno in Italia 714 mila ottantatreenni, l’80% in più rispetto ai 396 mila di oggi. Quindi, parte dell’attuale, accentuato invecchiamento dell’Italia è un’eredità del passato.

 

Da notare anche la correlazione tra invecchiamento e imprenditorialità recentemente evidenziata in uno studio di Liang, Wang e Lazear.[1] Scrivono questi autori: “L’imprenditorialità richiede energia, creatività e spirito imprenditoriale. Sono fattori che contribuiscono al declino dell’imprenditorialità con l’età, anche se le competenze aziendali aumentano con l’esperienza in posizioni di alto livello. Tuttavia, avere troppi lavoratori anziani rallenta l’imprenditorialità. Quando i lavoratori più anziani occupano posizioni chiave, impediscono ai lavoratori più giovani di acquisire competenze e sviluppare imprenditorialità”. Questa conclusione è stata testata usando i dati del Global Entrepreneurship Monitor.

 

Il risultato di questa analisi è che una diminuzione di una deviazione standard nell’età media di un paese aumenta la formazione di nuove imprese di 2,5 punti percentuali, che è circa il 40 percento del tasso medio.

 

Le politiche più efficaci di contrasto all’invecchiamento della popolazione sono quelle volte ad aumentare la natalità, in modo che le coppie possano avere i figli che effettivamente desiderano (2-3, come dicono tutte le ricerche, invece degli 1-2 effettivi). Secondo Boccuzzo e Dalla Zuanna: “L’Italia oggi si distingue per la scarsità di risorse investite a favore delle famiglie con figli, e per la pochezza delle politiche di conciliazione fra lavoro di cura e lavoro per il mercato. Anche in Italia queste politiche possono funzionare, se vengono messe in atto con continuità, intensità e determinazione. Lo dimostrano i risultati ottenuti in provincia di Trento e di Bolzano, dove la fecondità ormai da decenni è superiore rispetto a quella delle regioni confinati, sia italiane che austriache“.

 

Per aiutare la natalità servono quindi politiche fiscali simili a quelle adottate in Francia e Germania (incremento degli assegni familiari, servizi semi-gratuiti per la prima infanzia, incremento retributivo dei congedi genitoriali). Nel 2010 in Baden-Württemberg e in Bayern nascevano 0,2 figli per donna in meno rispetto a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, mentre oggi ne nascono 0,2 in più.

 

Serve inoltre una diversa e selettiva politica migratoria. Scrivono sempre Boccuzzo e Dalla Zuanna “Sarebbe ingenuo pensare che gli immigrati possano “sostituire” le mancate nascite degli anni passati, anche perché gli alti tassi di disoccupazione e la stagnazione del PIL rendono difficile il rinnovarsi a tempi brevi dell’immigration boom di inizio secolo. Tuttavia, sarebbe utile per l’Italia muoversi su due versanti. In primo luogo, prendendo ispirazione dalle migliori politiche migratorie europee ed extraeuropee, si dovrebbero fare accordi con altri paesi per ingressi mirati, da inserire nei ruoli dove si lamenta carenza di personale, mettendo anche in campo le adeguate strategie di formazione. Potremmo iniziare con lo stabilizzare chi già lavora, accelerando il processo di integrazione del mezzo milione di stranieri irregolari che oggi vivono in Italia.

 

In secondo luogo, il saldo migratorio diverrà più positivo e l’invecchiamento si rallenterà se diminuirà l’emorragia dei giovani (italiani e stranieri) verso l’estero. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo non bastano però le politiche migratorie: solo una robusta ripresa degli investimenti e della produttività potranno creare per i nostri giovani posti di lavoro in grado di mettere a tacere le sirene che li richiamano dall’Inghilterra, dalla Germania e da altre parti del mondo”.

 

Ancora una volta, senza un piano di sviluppo che dia priorità agli investimenti in innovazione, alle infrastrutture, anche digitali, e all’attrazione dei talenti, il futuro dell’economia Italiana, incluso il Nord Est, si preannuncia assai incerto.

 

[1] Si veda: James Liang, Hui Wang, and Edward P. Lazear, “Demographics and Entrepreneurship,” Journal of Political Economy 126, no. S1 (October 2018): S140-S196.


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